Donne senza nome
Nel 2004, dedicai il quarto Festival Transit a Maria Alekseevna Valentej, la nipote di Vsevolod Meyerhold, una donna che aveva dedicato la sua vita a riscattare la memoria e l’eredità del nonno, sfidando il governo sovietico per raggiungere il suo scopo.
Perché ho dedicato un festival di teatro di donne a chi ha consacrato la sua vita al lavoro di un uomo? L’impulso è venuto dalla notizia della sua morte, dopo averla incontrata a Mosca nella casa-museo che dirigeva. Tutti ricorderanno Meyerhold, ma chi si ricorderà di Maria, o Masha come veniva chiamata?
Un impulso simile mi ha portato a curare la regia dello spettacolo Anonime, con l’attrice messicana/colombiana Amaranta Osorio e la chitarrista spagnola Teresa García Herranz. Uno dei punti di partenza è stata la realtà degli innumerevoli femminicidi alla frontiera fra il Messico e gli Stati Uniti.
La prima improvvisazione aveva come tema le voci silenziate delle giovani donne scomparse nel deserto. Anonime racconta storie di donne, in poche frasi, per indicare dei destini. Non c’è molto da spiegare: le cronache di tante donne violentate, maltrattate, sparite sono all’ordine del giorno.
Le donne sono state anonime nella storia perché non avevano voce né volto, perché non erano riconosciute, perché erano relegate a un mondo di bambini, casa, conventi, cucina e adorno. Ora diventano anonime perché sono cifre, numeri, statistiche.
Con lo spettacolo volevo contribuire a dare nome e volto a donne semplici e misconosciute, come lo sono anche le madri e le nonne di ognuna di noi. Camminiamo sulle spalle di donne che ci indicano il cammino per creare spazi di poesia, autonomia, empatia, soggettività, solidarietà e bellezza.
Molte donne anonime lavorano con teatro in situazioni di emarginazione sociale, facendo diventare il teatro politica con altri mezzi.
La relazione con gli spettatori riempie di senso quello che facciamo. È una speranza senza illusioni, ma che ci dà la forza di andare avanti in mezzo a un esercito di senza nome.
Julia Varley