La rivincita dell’impossibile
Dalle scienze esatte …
1905
Chiunque abbia praticato, o anche solo visto fare ginnastica da camera su un tapis roulant sa che si può correre ad una data velocità rispetto al tappeto pur restando fermi sul posto rispetto alla camera. La velocità è una grandezza relativa, dipende dal sistema di riferimento in cui la si misura. Nel 1905 Albert Einstein affermò che questo è vero per tutte le entità in movimento eccetto che per la luce. La velocità della luce è una grandezza assoluta, che prescinde dal “tappeto” sul quale corre e dalla “camera” in cui si trova il tappeto. Impossibile, si disse. I fatti – che nel regno delle scienze esatte si chiamano esperimenti – s’incaricarono di dimostrare che quell’impossibile era reale.
1924
Dopo secoli di contrasto tra i sostenitori della natura corpuscolare e quelli della natura ondulatoria della luce, nel 1924 Louis de Broglie affermò che le due schiere in apparente contrasto erano senza saperlo in accordo tra loro. La luce è sia corpuscolo sia onda, tutt’e due le nature insieme. Impossibile, si disse. Ma anche in questo caso i fatti s’incaricarono di dimostrare che quell’impossibile era reale.
1927
Chi si trovi al volante d’un’auto in transito davanti a una data stazione di servizio è certo che, al momento del passaggio, la velocità dell’auto era quella segnata dal tachimetro – quella e nessun’altra -, e la stazione di servizio si trovava in quel punto preciso del suo percorso – quello e nessun altro. Nel 1927 Werner Heisenberg affermò che le due certezze sono incompatibili tra loro. A parte vetture e distributori di benzina ad uso didascalico, la certezza sulla velocità d’un oggetto in movimento genera incertezza sulla sua posizione, e viceversa. L’unica certezza è l’incertezza, secondo il “principio di indeterminazione”. Impossibile, si disse, dalla certezza può venire solo altra certezza. Ma ancora una volta i fatti s’incaricarono di dimostrare che quell’impossibile era reale.
Sono solo pochi esempi, tra i tanti disponibili: ma la rivoluzione della fisica del Novecento può essere sintetizzata proprio come la rivincita dell’impossibile. Contro l’assioma del senso comune, secondo cui il reale è per definizione (il) possibile, i fatti dimostrarono che il reale può essere talvolta (l’)impossibile. Più ancora, resero evidente che il possibile è solo il terreno dell’osservazione superficiale della realtà. Per vederla in profondità, ci si deve confrontare con la sfida dell’impossibile.
al teatro …
Il teatro del Novecento lo sapeva da tempo, che nel suo regno non valgono la norma del “terzo escluso”, né quella del “dalla causa all’effetto”. Ovvero, i canoni primi del possibile. Anche per il teatro, solo pochi esempi tra i tanti disponibili.
1904
Nel 1904 Craig osserva Isadora Duncan che danza, ma non vede un corpo in movimento, bensì il Movimento in un corpo. L’effetto si rovescia in causa. Il movimento – che è del corpo: il corpo viene prima – si rovescia in Movimento – che è nel corpo: il corpo viene dopo. Osserva l’attore, e vede che l’attore ha un corpo senza per questo essere quel corpo. L’attore può esistere anche in assenza del corpo. La Supermarionetta – questo il nome che coniò per il suo attore senza corpo – fu il trionfo di Craig nella sfida dell’impossibile.
1906
Stanislavskij osserva l’attore nel suo costitutivo esercizio della finzione, ma nella finzione vede lo strumento per creare verità. La finzione è il contrario della menzogna, non il contrario della verità. Il paradosso di Stanislavskij fu, come nel caso di Craig, un rovesciamento della norma “dalla causa all’effetto”. Secondo Stanislavskij, non dall’essere vero consegue che un fatto sia degno di fede ma, al contrario, dall’essere degno di fede consegue che il fatto diventi vero. La formulazione di tale paradosso e la sua messa in pratica secondo le leggi del “sistema”, furono la sua vittoria nella sfida dell’impossibile.
1931
Artaud osserva la danza d’una troupe di attori-danzatori balinesi, e li vede liberi ma nella rigorosa soggezione ad una partitura. Impossibile, si direbbe ancor oggi che libertà è diventata proprio una parola in libertà. O si è liberi oppure si è soggetti. Artaud si confrontò con questa sfida dell’impossibile, e alla sua vittoria dette il nome di crudeltà. In teatro come nella vita, quello che l’uomo può fare è solo mettersi in armonia con la necessità. Né rifiutarla né subirla. Semplicemente – crudelmente – viverla. Renderla vivente. La crudeltà è il principio nascosto dell’improvvisazione. L’attore che riesce a rivelarlo in scena coglie nello sguardo dello spettatore il soprassalto di gratitudine per aver testimoniato l’inattesa rivincita dell’impossibile, a fronte dei troppi attesi e mesti trionfi del possibile. In teatro, come nella vita.
1976, e qualche anno dopo
Eugenio Barba osserva l’uomo ordinario, che in scena cessa di esserlo proponendosi solo in quanto personaggio. Tra i due estremi vede un tertium: non più l’uomo ordinario, non ancora il personaggio. Semplicemente l’attore: capace di catturare l’attenzione dello spettatore senza le armi della persona scenica. O meglio, prima della messa in opera di quelle armi. Scopre il livello pre-espressivo. La sua vittoria nella sfida dell’impossibile è diventata l’arma per i tanti inermi senza patria del Terzo Teatro, e dei teatri che, senza averne il nome, ne condividono lo spirito di rivolta.
e ritorno.
1898
É del 1898 la scoperta della radioattività. Certi elementi possono naturalmente, per virtù propria, generare un diverso elemento. Impossibile, si diceva. A dimostrare che quell’impossibile era reale fu Maria Salomea Skłodowska, meglio nota come Marie Curie, dopo che, emigrata a Parigi dalla nativa Varsavia, ebbe conseguito la laurea in fisica e matematica alla Sorbona, dando subito inizio alle sue ricerche. Il primo elemento che scoprì, generato per radioattività dall’uranio, lo chiamò Polonio, in onore della terra d’origine.
Ma, oltre quella della scoperta che le valse il primo Nobel, nel 1903 – ne ebbe un secondo nel 1911 -, Marie Curie dimostrò la realtà di due altri presunti – e inveterati – impossibili. Che una donna possa competere nello stesso campo – scientifico, per di più – con rivali di sesso maschile, e che una moglie possa essere qualcosa in più d’un’appendice del marito. Pierre Joliot era, al tempo del matrimonio con Marie, uno scienziato molto più accreditato di lei. E tuttavia, non solo collaborò nelle ricerche della moglie, ma in certa misura se ne mise al servizio. Il primo Nobel fu assegnato alla coppia Marie-Pierre, darlo singolarmente a una donna sarebbe stato uno scandalo. Ma lui gliene riconobbe sempre il maggior merito.
Anche di questa vittoria nella ritenuta impossibile “sfida di genere” il teatro ha raccolto la consegna. Tante donne di teatro, finalmente a voce alta dopo un lungo forzato silenzio, competono con colleghi dell’altro genere. Sempre più con successo.
Franco Ruffini